Università della Svizzera italiana: tra dimissioni, fondi pubblici e un progetto che si sta smarrendo

L’addio anticipato di Luisa Lambertini all’Università della Svizzera italiana (USI) è avvenuto quasi in sordina, così come lo era stato il suo arrivo. La studiosa bolognese lascia l’ateneo senza aver portato a termine il proprio mandato né come rettrice né come docente, un epilogo che solleva interrogativi sulla capacità dell’istituzione di consolidare una leadership stabile e coerente con i suoi progetti fondativi.

L’impressione diffusa è che il rapporto tra Lambertini e l’USI non sia mai decollato. Le sue prime dichiarazioni nel 2023 — «Sarà interessante e stimolante» — non sono mai state seguite da una presenza pubblica significativa, alimentando la percezione di un distacco crescente e di una progressiva difficoltà a integrarsi in un contesto che, nel frattempo, mostrava tensioni interne e indecisioni strategiche.

La guida dell’ateneo passa ora ad interim al professor Gabriele Balbi, figura di spicco della Facoltà di scienze della comunicazione. La nomina, però, riaccende un dibattito mai sopito: l’USI, nata con l’obiettivo di rafforzare le opportunità di formazione per i giovani ticinesi e di rendere il Cantone un polo attrattivo a livello internazionale, sta davvero rispondendo alla missione che le era stata affidata?

A trent’anni dalla sua fondazione, molti osservatori sottolineano come l’ateneo sembri aver progressivamente perso il legame con il territorio, mentre la sua identità accademica rimane concentrata su percorsi e carriere che non sempre ricadono sul tessuto socio-economico cantonale. L’impressione — condivisa anche in sede politica — è che l’USI rischi di trasformarsi in un’istituzione che beneficia largamente di risorse pubbliche senza restituire al Cantone un ritorno proporzionato in termini di innovazione, competenze e sviluppo.

Un dato è certo: solo un anno fa il Gran Consiglio ha approvato un credito quadriennale di 736 milioni di franchi destinato a USI e SUPSI. Un investimento imponente, che comporta una responsabilità altrettanto grande. Ci si domanda se l’università stia offrendo risultati adeguati rispetto alle aspettative e se la sua evoluzione attuale non rischi di diventare, nel lungo periodo, un peso per le generazioni future più che un’opportunità.

In questo scenario complesso, la fase di transizione aperta dalle dimissioni della rettrice rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme: l’USI ha oggi l’urgenza di ritrovare una direzione chiara, una leadership stabile e un rapporto trasparente con la comunità che la sostiene. Solo così potrà dimostrare di essere ancora un progetto strategico per il Ticino — e non un’istituzione che fatica a mantenere le proprie promesse iniziali.

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