I centri fitness non sono per forza luoghi nocivi. Ma spesso riflettono una cultura del corpo che ha perso il legame con l’equilibrio, la lentezza, l’ascolto di sé. Rimettere il movimento al centro della vita non significa solo allenarsi: significa ritrovare un modo più umano di abitare il proprio corpo — magari camminando, giocando, danzando, o semplicemente respirando all’aria aperta.
Entrando in molti centri fitness moderni si ha la sensazione di entrare in un mondo chiuso, asettico, altamente controllato. Tutto è scandito da numeri, timer, progressi misurabili: calorie bruciate, chilometri percorsi, minuti di allenamento. Sembra che ogni gesto debba essere produttivo, finalizzato a un risultato visibile, immediato, esteticamente approvabile.
Ma a quale prezzo?
Le palestre sono spesso ambienti artificiali, dove il movimento non nasce da un’esigenza vitale, ma viene programmato in funzione di standard imposti. Ci si muove senza realmente andare da nessuna parte: si corre sul ‘tapis roulant’ guardando uno schermo, si sollevano pesi in una stanza chiusa, si simula uno sforzo disconnesso dal mondo reale. Il corpo viene trattato come una macchina da ottimizzare, più che come parte di un essere umano completo.
In questo contesto, il concetto di benessere viene semplificato in estetica, performance, controllo. Il piacere del movimento spontaneo, il contatto con la natura, il gioco, la socialità autentica — tutte queste dimensioni tendono a svanire. Al loro posto subentrano specchi, selfie, competizione, pressione estetica.
C’è anche una forma sottile di alienazione relazionale: ognuno è nel suo mondo, con cuffie, playlist, app personali. Si è insieme, ma soli. L’ambiente è spesso carico di codici impliciti su come bisogna apparire: magri, scolpiti, motivati, sorridenti. Chi non si adatta, si sente fuori posto.
Infine, è impossibile ignorare l’aspetto commerciale: il corpo è mercato, il fitness è industria. Viene venduta un’idea di salute confezionata in abbonamenti, integratori, programmi personalizzati e promesse di trasformazione. Tutto in un ambiente che simula la natura (piante finte, luce artificiale, musica motivazionale), ma è l’esatto opposto: controllato, standardizzato, spesso emotivamente vuoto.
3 risposte
Concordo pienamente con te. Mi sono iscritta in palestra l’anno scorso per la prima volta, con l’intenzione di renderla complementare ad altri sport e ho scoperto un mondo artificiale/artificioso, purtroppo specchio dei nostri tempi. Affollato di ragazzi e ragazze che passano il tempo occupando gli attrezzi senza utilizzarli, con la testa china sul telefono oppure scattandosi selfies che poi puntualmente ritoccano ad uso dei socials…
Tutti rigorosamente abbigliati con tutine aderenti e outfit all’ultima moda.
Nessuna cultura dello sport, nessun rispetto per chi in palestra ci va seriamente, nessuna interazione tra le persone…davvero triste.
Dall’altro lato, ci sono quelli che invece della prestanza e della perfezione fisica hanno fatto la loro ragione di vita, e allora via di integratori e pesi a go-go.
Ma una buona via di mezzo no?
Assolutamente d’accordo! È una “cultura” dello sport che faccio fatica a comprendere, ma forse questo non è neppure sport e vero benessere psicofisico 🙂
Non le ho mai frequentate ed immagino sia come affermate. Anzi, ne sono sicuro. Ne ho conosciuta una all’imbocco della Mesolcina, ci accompagnavo la morosa che doveva fare della fisioterapia focalizzata: almeno un aspetto positivo è stato quello di conoscere un paio di fisioterapisti/e in gamba che lavoravano con giudizio e competenza.
Personalmente, cresciuto in una periferia urbana campagnola, quando ancora c’erano cortili con galline e gabbie di conigli … l’attività fisica l’ho sempre fatta all’aperto. Pur che ora la mia amata periferia sia diventata uno schifo di zona residenziale piena di cubicoli di calcestruzzo armato e balconi vetrati. Segno di tempi improbabili?