L’avventura di due sposi è un racconto di Italo Calvino che fa parte della raccolta Gli amori difficili (1958). Il racconto ritrae un episodio semplice ma profondamente simbolico nella vita quotidiana di una coppia di sposi appartenenti alla classe operaia, esplorando temi come la distanza emotiva e la routine.
I protagonisti sono due persone semplici, operai che lavorano su turni opposti. Lui, operaio diurno, si sveglia all’alba per andare in fabbrica, mentre lei, operaia notturna, torna a casa proprio quando il marito sta per uscire. Questo ritmo di vita fa sì che i due abbiano pochissimo tempo da trascorrere insieme, e la loro relazione si sviluppa all’interno di una routine fatta di brevissimi momenti di contatto.
Nonostante le loro vite sembrino scandite dal lavoro e dalla stanchezza, il racconto mette in luce la tenerezza e l’intimità che esiste tra i due. Il loro amore si manifesta in gesti semplici: il marito si alza presto senza fare rumore per non svegliare la moglie, e la moglie, appena rientrata, cerca di cogliere qualche minuto di vicinanza con il marito prima che lui esca. Il tempo che passano insieme è brevissimo, ma pieno di significato.
Calvino riesce a catturare con grande sensibilità l’importanza di questi gesti quotidiani e il sacrificio che la vita di fabbrica impone alla coppia. Il racconto, attraverso la ripetitività e la mancanza di dialogo tra i due, suggerisce il contrasto tra la durezza della loro vita lavorativa e la delicatezza del loro amore.
In definitiva, L’avventura di due sposi è una riflessione sui piccoli momenti di affetto e comprensione che resistono nonostante le difficoltà e la monotonia della vita.
L’avventura di due sposi
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via. A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera. Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato. Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale. Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.
FONTE: Italo Calvino, L’avventura di due sposi, in I racconti, Einaudi,Torino, 1976
L’autore
Italo Calvino (1923-1985) è stato uno degli scrittori italiani più importanti del Novecento. Ha scritto moltissime opere, tra cui romanzi, raccolte di racconti, fiabe e saggi. Tra questi citiamo: Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Marcovaldo, ovvero le stagioni in città (1963), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979).
5 risposte
Trovo questo racconto di Calvino molto bello perché invita a riflettere su un tema molto importante: “il tempo a disposizione che abbiamo dopo il lavoro”. Purtroppo succede che, lavorando, finiamo per non avere il tempo, o se ce l’abbiamo è davvero molto breve, da dedicare ai nostri cari, che possono essere i genitori, i nonni, la compagna ecc., magari perché facciamo orari lavorativi diversi o perché il nostro lavoro ci impegna per gran parte della giornata. In questo modo il tempo passa e ci rendiamo sempre più conto che non abbiamo il tempo materiale per passarlo con le persone a cui teniamo e che tutto “ruota” – tristemente, a volte – soltanto intorno al lavoro. Secondo me è giusto avere un lavoro, ma non che quest’ultimo ostacoli così notevolmente i nostri rapporti sociali, perché sono questi che in definitiva contano davvero. Meglio, quindi, avere un lavoro che economicamente non mi frutti chissà quanto denaro, ma il giusto e che mi permetta di vedermi di più con la mia famiglia. Piuttosto che l’opposto, ovvero con molti più soldi e poco, se non pochissimo, tempo da dedicare alla famiglia e ai propri cari.
Mi ritrovo molto in ciò che ho letto perché anch’io, questa estate, ho fatto 4 settimane di file a lavorare di notte! È vero che non ho una moglie, però ho provato un po’ la stessa sensazione che provavano i protagonisti del racconto, dato che la mattina quando tornavo a casa salutavo i miei genitori, facevo le mie cose e poi andavo a dormire fino all’ora di cena.
Trovo che possa anche essere in qualche caso una bella esperienza lavorativa, ma se si è sposati e, in futuro si vuole creare una famiglia, la vedo piuttosto difficile e “complicata” se si vuole far crescere uno o più figli in queste condizioni.
Questo racconto di Italo Calvino tratta un tema molto comune in numerose famiglie, ovvero il poco tempo che ognuno di noi ha a disposizione dopo il lavoro. Infatti, se noi facciamo un breve calcolo, una giornata è composta da 24 ore, di cui togliamo circa 8 ore che le passiamo a dormire, altre 11 ore in cui stiamo lontano da casa per lavoro, ci accorgiamo che le ore a disposizione per la nostra famiglia saranno solamente cinque. In queste 5 ore che trascorriamo a casa dobbiamo togliere un’altra ora in cui siamo impegnati nelle vicende domestiche quotidiane. Questa realtà avviene nelle famiglie in cui entrambi nella coppia facessero gli stessi turni di lavoro: pensiamo nel caso in cui, come scrive l’autore, i turni non fossero uguali! Proprio in questo caso le ore a casa che potremmo trascorrere vicino alla nostra famiglia non sarebbero cinque, ma si tratterebbe veramente di… pochi istanti. In questi casi, come narra Italo Calvino, le dimostrazioni d’amore si tradurrebbero nei piccoli gesti, come il non fare rumore nel momento in cui torniamo a casa…
Questo racconto ci fa riflettere sul significato delle piccole cose che spesso diamo per scontate, i brevi momenti che trascorriamo con i nostri cari dopo il lavoro sono un ottimo esempio, perché sembrano non bastare mai, spesso ci si sente di meritare più tempo con loro.
Infatti passiamo quasi tutti la maggior parte del nostro tempo al lavoro, a scapito della nostra vita privata, questi momenti di intimità condivisa sono perciò molto preziosi.
Inoltre, in questo caso i protagonisti, non possono mai godersi questi momenti appieno perché uno dei due è sempre in uno stato di “preparazione” alla giornata mentre l’altro si sta rilassando dopo la fine della propria, sarà quindi sempre di un umore diverso dal consorte.
La connessione più diretta tra i due sembra quindi essere il momento dell’andare a letto, durante il quale avvertono il calore del posto occupato dall’altro poco prima.
Anche se nel titolo compare la parola “avventura”, Calvino non narra di storie alla Indiana Jones, ma bensì di viaggi verso la mancata espressività, dove questo vuoto, il silenzio, sta a rappresentare la difficoltà comunicativa oggigiorno sempre più presente nei rapporti umani, che però allo stesso tempo assume un suo valore come strumento di comprensione.
Il racconto permette a Calvino di esprimersi sul lavoro moderno, di quanto questa vita frenetica ti intrappola ventiquattro ore su ventiquattro e non si ha modo di non pensarci. Anche il modo di incontrarsi dei due sposi sembra basato sul ritmo lavorativo che va a sottrarre il tempo privato.