Parte il Tour de France, ma per me seguirlo sarà difficile. Il ciclismo di oggi ha perso gran parte della sua poesia: troppo controllato, troppo calcolato. Manca l’imprevisto, manca il sogno.
Il ciclismo professionistico moderno, pur rimanendo uno degli sport più affascinanti e drammatici per la sua durezza e il rapporto epico tra l’uomo e la natura, sembra aver smarrito gran parte della sua anima poetica. Ciò che un tempo era un racconto di eroi solitari sulle strade polverose, oggi è spesso un prodotto levigato, tecnologico, profondamente calcolato. Non mancano le emozioni, certo, ma il linguaggio con cui vengono espresse ha perso la sua liricità.
Il ciclismo degli anni d’oro — Coppi, Bartali, Anquetil, Merckx — era fatto di uomini contro il destino. Le tappe non erano solo segmenti cronometrati, erano viaggi. Si raccontavano come novelle cavalleresche: salite infinite, incidenti, fame, gelo, solitudine. Il tifoso si commuoveva perché vedeva nel ciclista una forma di resistenza alla fatica della vita.
Oggi, gran parte di quella poesia è soffocata da watt, algoritmi e aerodinamica.