È la prima sera in Engadina dopo il viaggio, neanche troppo lungo, dal Ticino. Come sempre quando arrivo in questa ampia vallata le mie energie crescono e sento una “febbre” da movimento, forse dovuta anche alla presenza di numerosi sportivi che corrono e pedalano su questo altipiano. Nel momento in cui il sole cala dietro le cime, il lago di Champfér riflette i colori argentei del tramonto. Non resisto: infilo le scarpe da corsa e parto per tre ripetute “leggere” (l’altitudine si fa sentire, non solo l’età…) da 1 km sulla strada sterrata, precedute da un riscaldamento di 25 minuti e un defaticamento di 15.
La luce opaca del tardo pomeriggio accarezza le cime dei larici mentre il sole scende dietro le montagne dell’Engadina. Sono appena arrivato, ma già il richiamo della strada sterrata che costeggia il lago di Champfér è troppo forte per resistere. Scarpe da corsa allacciate, respiro profondo: è il mio rituale inaugurale di vacanza, tre ripetute da 1 km ciascuna, preludio di giorni pieni di corse, passeggiate, giri in mountain bike.
Prima ripetuta: 4’45’’
Trenta minuti di riscaldamento e poi… via! Allo start il cuore accelera, il piede affonda nella ghiaia chiara, una dolce scia di polvere si alza ad ogni falcata. Il lago specchia il cielo e una brezza leggera smuove appena la superficie. Mi concentro sul ritmo: spingere, allungare, respirare. Il fiato si fa profondo e regolare, le gambe rispondono. Al traguardo rallento, sorrido: è un assaggio di fatica e libertà, un piccolo trionfo sul cronometro interiore.
Seconda ripetuta: 4’40’’
Il recupero è breve, il respiro ancora affannato. La seconda ripetuta inizia con un piccolo nodo allo stomaco: la fatica comincia a farsi sentire. Sento il battito in petto come un tamburo, i quadricipiti che bruciano e ogni falcata che sfida la gravità. Il lago sbiadisce nello sfondo, la strada si restringe, ma il paesaggio alpino mi sostiene: il profumo del pino, il canto ovattato di qualche uccello. Supero il dolore, sento una forza antica che mi sospinge avanti. È come scoprire un estremo confine dentro di sé, oltre il quale ti senti vivo come mai.
L’incontro con Jakob Ingebrigtsen
Proprio mentre stavo affrontando la seconda ripetuta è successo qualcosa di molto particolare: incontro infatti sul mio stesso percorso il campione olimpico Jacob Ingebrigtsen, nient’altro che il mio idolo nell’atletica, l’ho sentito arrivare alle spalle, una falcata leggera ma decisa. Mi ha affiancato con naturalezza, senza rumore, come se galleggiasse sull’aria sottile dell’Engadina.
Ci salutiamo con la mano, sorride:
«Ciao.»
«Ciao,» ho risposto, senza fiato e quasi senza crederci.
Abbiamo corso fianco a fianco per una manciata di secondi, giusto il tempo di sentire cosa vuol dire fluidità vera. Poi ha allungato, senza sforzo apparente, mentre io restavo lì, con le gambe pesanti e un sorriso incredulo stampato in faccia.
Terza ripetuta: 4’45’’
Ancora emozionato per questo incontro affronto l’ultimo chilometro, il più importante, anche se oggi non spingo a tutta: siamo solo all’inizio. Vado leggero, tenendo sotto controllo i battiti. Ad ogni passo immagino il lago che si apre sotto di me, un trampolino di luce. Il cuore sale a 145 battiti, il respiro è quello giusto. Raggiungo il punto finale e mi lascio cadere in camminata: il corpo pulsa, il sudore mi bagna la fronte, ma dentro c’è una sottile gioia. Quella sensazione di aver dato, di aver domato la strada e insieme di essermene lasciato rigenerare.
Tramonto e promessa
Seduto su una panchina, guardo il lago tingersi di argento. Provo un mix di stanchezza e leggerezza che solo una corsa in quota sa regalare. In quel silenzio alpino prometto a me stesso altre avventure: colline da esplorare in mountain bike, sentieri da percorrere al mattino presto, lunghe camminate all’ombra dei ghiacciai. Questa sera, lungo la strada sterrata di Champfér, ho ritrovato l’essenza del correre: fatica, bellezza, libertà. E so che sarà solo l’inizio.
