Silvaplana si sveglia sotto un cielo terso, incastonato tra le cime affilate dell’Engadina. L’aria ha quella freschezza alpina che punge le narici e invita a respirare a fondo. Le acque del lago riflettono il sole come uno specchio liquido, e il vento — mai davvero assente da queste parti — accarezza le vele che già scivolano leggere sull’acqua.
Salgo in sella alla mia e-bike con un pensiero preciso: oggi si pedala verso l’Albula, in silenzioso omaggio a Gino Mäder. Lo immagino sorridere, come faceva spesso, occhi limpidi e cuore gentile, nei suoi momenti fuori dalla gara. Su quelle curve, ora scolpite nella memoria collettiva del ciclismo, voglio passare anche io, con rispetto e gratitudine.
La bici scivola dolcemente sull’asfalto liscio, aiutata dal motore che asseconda il ritmo delle gambe. Lascio alle spalle il lago di Silvaplana e mi dirigo verso Samedan, passando tra pini, pascoli e piccoli villaggi engadinesi dai muri bianchi e decorati. Il paesaggio è così nitido che sembra un dipinto: cielo azzurro senza sbavature, montagne che si alzano solenni, e mucche che pascolano lente, ignare del tempo.
Il traffico è intenso in questa calda domenica d’agosto. La salita vera inizia da La Punt. Qui la strada si stringe, i tornanti cominciano a disegnare curve sempre più ravvicinate, come una calligrafia elegante incisa sulla pietra. L’Albula è una salita antica, scolpita nella roccia e nell’immaginario dei ciclisti. Ha un’anima mutevole: dolce nei primi tratti, severa man mano che si sale.
La e-bike mi aiuta, ma non cancella la fatica: il fiato si fa più profondo, le gambe sentono la pendenza, il cuore trova un nuovo ritmo. Pedalo piano, con rispetto. In ogni tornante sento la presenza di qualcosa che va oltre il paesaggio — una memoria che aleggia, un’assenza che pesa.
Poi eccola, la stele. Discreta, ma eloquente. Una figura stilizzata, un nome inciso, e un’eco silenziosa di dolore e bellezza. Mi fermo. Spengo la bici. Il vento sussurra tra le rocce. Accanto alla strada, fiori freschi, borracce e magliette dedicate, lasciati da qualcuno che ha voluto ricordare. Leggo il nome: Gino Mäder. Penso al gesto che lo ha definito non solo come ciclista, ma come uomo: l’altruismo, il coraggio, la gentilezza.
Resto lì qualche minuto, in silenzio. Non servono parole. Il rumore della ruota libera di una bici che passa veloce accanto a me riempie l’aria come una campana. È il suono della vita che continua, che scorre, che onora.
Riparto. Gli ultimi chilometri salgono ancora, fino alla cima del Passo dell’Albula, dove la valle si spalanca in tutta la sua maestosità. Ma oggi, più della vista, resta dentro la sensazione di aver pedalato per qualcosa. Per qualcuno.
La montagna trattiene il ricordo. E il vento, tra questi tornanti, sussurra ancora il nome di Gino.